di Carlo Clericetti
Ci voleva un suicidio, come purtroppo spesso avviene, per scoperchiare la pentola maleodorante dei rapporti scorretti tra banche e clienti. Questo è stato un caso clamoroso perché i possessori di obbligazioni subordinate hanno perso tutto, ma chi pensasse che siamo di fronte a un caso di malaffare che può succedere, come succedono le rapine o i furti in appartamenti, sottovaluterebbe non di poco il problema. Sì, i casi di illegalità possono accadere ed è impossibile prevenirli tutti, come in qualsiasi altro campo, ma nell’ambito bancario e finanziario sono permessi, e sono perfettamente legali, comportamenti degni dei mitici venditori di tappeti (non ce ne vogliano quelli onesti). E non da qualche anno, ma praticamente da sempre. Solo che prima la finanza era poco sviluppata, i prodotti erano relativamente pochi e in linea di massima abbastanza semplici da capire e dunque anche le scorrettezze erano limitate a quello che c’era, e raramente producevano esiti disastrosi. Oggi esistono infiniti prodotti finanziari, con livelli di rischio aumentati esponenzialmente e spesso talmente complessi da poter essere valutati solo da ingegneri finanziari, e a volte addirittura neanche da loro, ma solo da chi li ha costruiti.
C’è anche un altro aspetto da considerare. Fino agli anni ’90 del secolo scorso il sistema bancario italiano era quasi completamente di proprietà pubblica, sia pure sotto varie forme giuridiche. Il suo scopo principale, dunque, non era perseguire il massimo profitto, o, come si è detto da un certo momento in poi, “creare valore per gli azionisti”; quindi si comportavano diversamente. E a un quarto di secolo di distanza in gran parte della clientela è rimasta una percezione della banca come una sorta di servizio pubblico, da cui perciò non ti aspetti di essere imbrogliato o che anteponga il suo interesse al tuo, come non ti aspetti che il medico della Asl ti prescriva un qualche trattamento non perché ne hai bisogno, ma perché così “la ditta” guadagna di più. E questo atteggiamento psicologico riduce la soglia di attenzione e spinge magari a fidarsi quando bisognerebbe invece approfondire bene le proposte: cosa che peraltro non sono in molti ad essere in grado di fare.
All’inizio degli anni ’80 il concetto di “trasparenza” era del tutto sconosciuto nel mondo bancario. Volevi comprare un titolo di Stato? La commissione era incorporata nel prezzo, e spesso neanche su precisa richiesta ne veniva precisato l’importo. Di confrontare le condizioni di diverse banche non c’era modo. Mi permetto un ricordo personale. Volendo affrontare la questione, per aggirare il muro di silenzio opposto dalle banche pensai di rivolgermi ai sindacati e contattai i segretari dei bancari di Cgil, Cisl e Uil – i quali, curiosamente, avevano tutti e tre cognomi spagnoli: Ramirez, Rodriguez e Fernandez – che in gran segreto mi fornirono i dati. L’articolo che ne trassi, con tabellone comparativo, fece un grande rumore e negli anni successivi, prima che la Banca d’Italia emanasse le disposizioni sugli obblighi di trasparenza, più o meno tutta la stampa pubblicò un gran numero di inchieste analoghe.
Già allora, comunque, molte banche, specie tra le Popolari e le Casse di Risparmio, spingevano i clienti ad acquistare le loro obbligazioni, che non sarebbero state quotate e quindi praticamente non avevano mercato. Quando l’investitore voleva liquidarle non poteva che rivolgersi alla banca stessa e, non avendo scelta, doveva accettare il prezzo che gli veniva proposto.
Poi furono inventati i certificati di deposito, che avevano due caratteristiche essenziali: rendevano meno dei titoli di Stato corrispondenti e, al contrario di questi ultimi, non avevano mercato: anche quelli si poteva rivenderli solo alla banca da cui si erano acquistati, spesso con notevoli penalizzazioni. Ci si sarebbe aspettato che nessuno li avrebbe comprati: invece ebbero una diffusione enorme, a riprova che la clientela bancaria era una facile preda e che i venditori non avevano grandi scrupoli. Ricerche dell’epoca scoprirono che erano presenti prevalentemente nei portafogli dei piccoli e medi risparmiatori con età superiore alla media. Questo scandalo fu poi stroncato da Vincenzo Visco, che, quando era ministro delle Finanze, portò la loro tassazione dal 12,5 al 27%, mettendoli definitivamente fuori mercato, tra gli altissimi lamenti di tutti i rappresentanti delle banche che perdevano un canale di finanziamento assai conveniente.
Siamo ancora alla preistoria della finanza: questi, come si diceva, erano ancora prodotti molto semplici e sarebbe bastata qualche nozione di base per evitare investimenti poco vantaggiosi. Poi, man mano, le cose si sono sempre più complicate, e con esse le probabilità di fare scelte sbagliate. Oggi, prima di comprare un’obbligazione, bisognerebbe studiare attentamente il prospetto informativo e la scheda-prodotto, e consigliarsi con qualcuno che non sia in conflitto d’interesse: diverso, quindi, da chi propone l’investimento.
Da quando poi si sono diffusi i derivati si sono moltiplicati i casi di malcostume. Una delle nostre più importanti banche, la prima e più attiva su questi prodotti, arrivò a venderli persino a negozianti e piccoli agricoltori, che in molti casi hanno poi pagato in modo assai salato la fiducia mal riposta. E dei derivati siamo poi tutti vittime come cittadini. Prima che venissero emanate dal Tesoro disposizioni in proposito (ma ormai moltissimi buoi erano scappati dalla stalla) quasi tutti gli enti locali, dalle Regioni ai più piccoli Comuni – persino Brescello, provincia di Reggio Emilia, il paese di Peppone e Don Camillo – si erano fatti convincere a stipulare contratti dagli esiti spesso incontrollabili e nella maggior parte dei casi causa di pesanti perdite che abbiamo dovuto coprire con le nostre tasse. E convincerli era facile, perché molti di questi contratti comportavano un versamento iniziale nelle casse dell’ente locale, e le amministrazioni, sempre a caccia di risorse, applicavano spensieratamente il principio “dopo di me il diluvio”: tanto è dopo e io non ci sarò più.
Si potrebbe proseguire per pagine e pagine (e non abbiamo neanche accennato alle assicurazioni, che sono peggio delle banche), ma pensiamo di aver dato un’idea della situazione. In tutto questo hanno sempre brillato per la loro mancanza di incisività, quando non per la loro completa assenza, le autorità di regolazione e controllo. Che spesso si trincerano dietro il principio della responsabilità personale: come dicono in America, è lecito anche vendere “cieli azzurri” (cioè qualcosa di nessun valore), basta che lo si dica: spetta al compratore informarsi e decidere, non si può limitare la sua libertà di fare ciò che vuole con i suoi soldi. Un principio teoricamente valido, a patto che poi si sia davvero implacabili nell’imporre la correttezza e soprattutto la chiarezza dell’informazione, cosa che in moltissimi casi non è avvenuta e non avviene, e che ci siano sanzioni esemplari per chi non rispetta le regole (qualcuno ha notizia di prigioni piene di banchieri, bancari, assicuratori, finanzieri, promotori e broker vari?). Ma poi, siamo sicuri che basti questo? In un campo così delicato e così complesso bisognerebbe fare di più. Anche l’obbligo del casco in moto e delle cinture di sicurezza sono limitazioni della libertà personale, eppure nessuno le ritiene misure sbagliate. Che lo Stato intervenga sulla libertà di scelta è certamente un problema delicatissimo e da affrontare con mille cautele. Ma quando ci sono asimmetrie informative (e di conoscenze) come in questo campo, il problema va affrontato. “La Repubblica incoraggia e TUTELA il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Dov’è che l’ho letto?…
(Repubblica.it – 12 dic 2015)
Blogging in the wind – Twitter: @CarloClericetti
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