di Giuseppe Pennisi
Nell’inquadratura finale de «La Cina è vicina», film di
Marco Bellocchio del 1967, uno dei protagonisti, Camillo,
aizza una muta di cani e gatti contro il fratello, l’ipertrasformista
Vittorio, alle prese con il primo comizio elettorale.
È un po’ quello sta accadendo alla Cina.oggi. Corteggiata nell’ultimo
quarto di secolo (dopo le più o meno veritiere quattro
modernizzazionie di Deng Xiaoping), in seguito alle mini-svalutazioni
e all’altalena alla Borsa di Shanghai, ora viene guardata
con timore. Il New York Times del 28 agosto ha scritto, tacitianamente
e lapidariamente: «Da speranza è diventata incertezza
». Non è, però, il caso di sguinzagliare cani e gatti con
la voglia matta di mordere e graffiare Pechino.
Andiamo agli aspetti macro-economici. Quando la Cina cresceva
oltre il 10% faceva da traino non solo al bacino asiatico, ma
all’intera economia mondiale, con particolare effetto sull’Africa
e sull’America Latina (in Europa incideva principalmente sulle
macchine utensili e sul lusso). I dati ufficiali affermano che nel
2015 l’aumento del Pil sarà del 7%, più verosimilmente del 5%.
Una brusca frenata. Da situare in un contesto, però, in cui il Pil
dell’Unione Europea è quasi il doppio di quello cinese e in termini
di Pil pro-capite il Celeste Impero è ottantaseiesimo su scala
mondiale (abbastanza in fondo alla classifica). In parallelo
quasi con la riduzione della crescita cinese, c’è stato un forte aumento
(ben superiore alla aspettative) di quella americana. Nel
complesso, a livello mondiale, i contraccolpi saranno meno acuti
di quanto viene frettolosamente scritto in questi giorni.
Ci saranno scossoni in alcune aree e settori. In Europa, come si è
detto, l’industria tedesca delle macchine utensili (come la Trumpf)
e quella italiana del lusso (nonché quella francese dei vini pregiati)
devono correre alla ricerca di nuovi mercati in condizioni
di notevole incertezza perché il mercato russo è alle prese con
sanzioni (e con una flessione ancora più forte di quella della Cina).
Più complessa la situazione di quei settori in cui la Cina ha
operato (spesso tramite joint venture con aziende europee o americane
di lunga esperienza) per l’estrazione o la raffinazione
di materie prime. È il caso della BHP Billitton che opera da anni
con partner cinesi nello sfruttamento di ferro in Australia, rame
in Cile e oli minerali nei Caraibi (Trinidad). Si trova, quasi
da un giorno all’altro, senza il maggior cliente e (quasi) senza il
socio di riferimento. Ci sono numerosi casi analoghi: mega imprese
come la brasiliana Vale e la giapponese Simitomo in Giappone
(che stanno svendendo miniere acquistate in vista degli affari
con una sempre più prospera). Manca ancora una mappatura
precisa. La Cina è, comunque, (quasi) più lontana.
Giuseppe Pennisi