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La fortuna di non avere un piano Varoufakis

La fortuna di non avere un piano Varoufakis

Caro direttore,
che l’ex ministro delle Finanze Varoufakis consideri «tossico» «finanziariamente nocivo» «fallimento economico» il meccanismo per le privatizzazioni richiesto, insieme ad altre condizioni per concedere il terzo piano di aiuto per la Grecia, non fa notizia: uno dei «biglietti da visita» con cui, insieme al presidente Tsipras, si era presentato a Bruxelles era proprio il congelamento delle privatizzazioni già avviate dal precedente governo. Le cose sono poi andate come sappiamo. Ma Varoufakis è tornato sull’argomento (Corriere del 21 luglio) per ricordare gli elementi essenziali di un piano che, a suo dire, avrebbe presentato ai partner europei a trattativa ormai inoltrata. E questo sì, suscita qualche commento e, in noi italiani, anche qualche ricordo. Il piano di costituire una holding a cui apportare i beni da (eventualmente) dismettere, di valorizzarli prima di venderli usando i proventi di bond emessi usando quei beni come collateral, è fratello gemello del piano per «privatizzare» Iri ed Eni redatto dal professor Guarino quando era ministro dell’Industria del governo Amato, e in seguito innumerevoli volte rilanciato. Riproposto per la Grecia mostra ancora più evidenti le ragioni per cui va respinto: allora e adesso.

Prima valorizzare e poi vendere, dice Varoufakis. Valorizzare è un’attività generica, richiede di scegliere un obiettivo; quindi di scegliere la strategia per raggiungerlo. Chi sceglie l’obiettivo, chi la strategia? Chi la realizza? Chi si fa carico del rischio d’impresa? Può darsi che l’amministrazione greca abbia le capacità necessarie (anche se qualche dubbio in proposito è lecito), sta di fatto che nulla è stato fatto negli anni passati, e che neppure lo straccio di un abbozzo è stato preparato nei mesi di Varoufalds, quando pure poteva essere una carta da giocare in alternativa a quella del supposto ricatto. Ma soprattutto: perché questo dovrebbe portar maggiori guadagni? Il valore che il mercato attribuisce a un bene comprende il valore attualizzato dei vantaggi attesi dedotto quello per i costi sostenuti, tenendo conto del rischio d’impresa. Sul mercato si confrontano le diverse strategie, e il governo sceglie. E quando sceglie di vendere, insieme al bene cede pure il rischio. Compreso quello di corruzione: più facile contenere il fenomeno con gare internazionali che sorvegliando la quantità di appalti per l’esecuzione delle opere. Le ragioni per cui lo Stato non è un granché come imprenditore dovrebbero essere note anche in Grecia. Ma oltre alla strategia per la valorizzazione dei beni, un governo greco, soprattutto adesso, dovrebbe porsi il problema della strategia per modernizzare il Paese. Gli spunti a farlo non possono che venire dall’esterno, mettendo il più possibile in contatto la società greca con competenze diverse, progettuali, tecniche, organizzative; esponendo la propria burocrazia a richieste che la incalzino sul piano legale, fiscale, logistico. Offrire ad imprenditori di altri Paesi l’opportunità di essere loro a valorizzare i beni che il Paese ha deciso di dismettere, dovrebbe essere vista come la grande opportunità, la strategia per la modernizzazione del Paese. Altro che la chiusura autarchica proposta dall’ex ministro Varoufalds. Aver scelto il piano Barucci invece del piano Guarino è stata una grande fortuna per l’Italia. Aver rimosso dal tavolo il piano Varoufalds è stata per la Grecia una fortuna di molte volte maggiore, che non andrebbe sprecata.

La realtà è che purtroppo sfrondato dalle venature ideologiche e dagli aspetti propagandistici Varoufalds (non diversamente da altri debitori del passato, personaggi spesso di grande fascino personale e mediatico) non fa che ripercorrere le orme di tutti i grandi debitori: sperare di ripagare il debito accumulandone di nuovo, in quantità crescenti. Con la differenza che i suoi predecessori avrebbero avuto l’accortezza che a Varoufakis è mancata di non scegliere come veicolo per le proprie avventure un Paese già in default solo pochi anni prima.

di Franco Debenedetti e Nicola Rossi

Fonte: Corriere della Sera - 25 luglio 2015

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