• venerdì , 22 Novembre 2024

13 Mesi

Che cosa fare nel lasso di tempo che ci separa dalla conclusione dell’esperienza del governo Monti.
Il governo Monti ha definitivamente superato la boa della possibile crisi a favore di elezioni anticipate che qualche partito poteva avere in mente, e ora ha di fronte a sé 13 mesi di lavoro. Quattrocento giorni, che si aggiungono ai 100 già consumati (positivamente), nei quali non bisognerà demordere dal lato del rigore per continuare a sanare la finanza pubblica, ma nel quale anche aprire strade nuove per il ritorno allo sviluppo. Un tempo breve, se si considera la strutturalità dei problemi italiani, ma anche un tempo sufficiente per impostare riforme che lascino il segno, dopo una fase storica passata tra impotenze (centro-sinistra) e declamazioni (centro-destra) che hanno privato il Paese di un vero governo, quello delle decisioni. Si tratta però di darsi delle rigide priorità, sfuggendo alla tentazione – comprensibile, ma letale – di voler fare tutto, o anche solo di mettere troppa carne al fuoco. Suggerisco perciò tre tipi di scelte selettive: una immediata, una politica, e un paio strategiche.
Partiamo, ovviamente, da quella “immediata”. Che essendo una sola, nel mare delle tante esigenze che sono all’ordine del giorno, non è di facile selezione. Penso però che a ben vedere oggi ci sia una priorità assoluta, che rende più indispensabile rispetto ad altre circostanze l’intervento del governo: la crisi di liquidità. In questo momento il sistema economico è come un terreno reso arso dalla mancanza d’acqua. Non è, il mio, il solito piagnisteo nei confronti delle banche. Anzi, mai come adesso anche i banchieri sentono il disagio di non essere in condizione di poter erogare di più, fermo restando il fatto che la facilità di credito che ha caratterizzato gli anni pre-crisi non solo non potrà più tornare, ma è anche opportuno che non torni perché aveva finito col “drogare” il mercato, favorendo il vizietto di molti imprenditori di fare impresa con i soldi delle banche e tenere i propri in qualche attività finanziaria o immobiliare molto più redditizia. Ma un conto è scremare dal mercato le attività che non hanno gambe per camminare, e un altro è fare di tutt’erba un fascio (come i tagli lineari nella finanza pubblica). Allora, occorre fare due cose: mettere in condizione le banche di aprire i rubinetti (non come prima, ma certo più di ora), pagare tutti i debiti accumulati dalle pubbliche amministrazioni con le imprese (ufficialmente sono 70 miliardi, ma stanno circolando stime che avrebbe in mano il ministro Passera che parlano addirittura di 100 miliardi). Per il primo obiettivo, si chiamino i banchieri a palazzo Chigi e si apra con loro un confronto costruttivo sul che fare. Per il secondo obiettivo, si proceda anche a costo di portare a debito “formale” ciò che ora è solo debito “sostanziale”. Ma senza liquidità il sistema muore, e ci siamo troppo vicini per rimandare ancora.
La scelta che ho chiamato “politica” è invece già fatta: riformare il mercato del lavoro. Non so cosa ne verrà fuori – anche perché il governo è stato ondivago, mostrando evidenti differenze interne – ma so che questo tema è considerato dai mercati e dalla “opinione” internazionale che conta un passaggio decisivo per marcare un punto a nostro favore in termini di determinazione e coerenza. Cioè virtù che ci sono del tutto mancate negli ultimi anni. Dunque, articolo 18 o meno, è decisivo che si faccia una riforma. Se poi fosse anche una buona riforma, capace di migliorare il nostro sistema di welfare nel suo complesso, tanto di guadagnato. E peggio per le forze sociali se si dovessero spaccare (come si profila).
Infine ci sono le due scelte strategiche. Quelle che propongo all’attenzione del governo apparentemente riguardano solo la finanza pubblica, ma in realtà da esse dipende anche la crescita: spesa pubblica corrente e debito. Da un lato, occorre fare un lavoro di spending review non andando a cercare le voci marginali degli sprechi – certo, sono tanti e messi insieme fanno molti denari, ma il lavoro da fare è lungo e si rischia di produrre uno studio anziché decisioni – bensì intervenendo su alcuni dei capitoli di spesa maggiori, laddove l’intervento produce anche risultati di semplificazione non contabilizzabili solo sul piano finanziario. Penso, uno per tutti, alla semplificazione del decentramento – 7-8 macro-regioni, via le province, via i comuni sotto i 5 mila abitanti, via alcuni ordinamenti di grado minore – che a regime potrebbe far risparmiare un centinaio di miliardi. Dall’altro lato, occorre un intervento una-tantum sul debito, mettendo in campo il patrimonio pubblico – che va portato in Borsa con società veicolo – e quello privato, cui bisogna non infliggere una tassa patrimoniale ma chiedere un acquisto forzoso di titoli della stessa società veicolo. Poi con i due terzi del ricavato si potrà abbattere il debito, e con l’altro terzo fare investimenti pubblici in conto capitale. Buon lavoro.

Fonte: Il Foglio del 24 febbraio 2012

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